Poteva diventare un macellaio, finì per essere l’“architetto”. L’architetto di centrocampo che fece le fortune di Barcellona prima e Inter poi. Uno dei più grandi, e forse sottovalutati, calciatori di sempre: Luis Suarez Miramontes. Oggi Luisito compie gli anni, 87 primavere: auguri all’uomo che Gianni Mura definì «un po’ ballerino, un po’ torero», per sottolineare la sua capacità di unire giocate sopraffine a corsa infinita.
Il soprannome di architetto gli venne affibbiato da Alfredo Di Stefano, che, sebbene fosse un suo acerrimo rivale al Real, non poteva non riconoscerne il valore altissimo che distillava in quei lanci lunghi millimetrici. Oggi non se ne vedono più lanci come quelli di Suarez: in porta ci si arriva toccando il pallone cento volte. Difficile vedere verticalizzazioni di quel tipo: ci vuole precisione e ingegno. Quelle di un architetto, appunto.
Suarez crebbe nelle giovanili del Deportivo La Coruña. Era uno smilzo, esile e mingherlino con le gambette da uccellino. A vederlo, nessuno avrebbe scommesso un centesimo sul suo futuro da calciatore. In molti lo immaginavano già con un futuro assicurato nella macelleria del babbo, dove lui spesso aiutava al banco o a servire i clienti. Quell’apprendistato servì a Luisito per capire che no, proprio non ci si vedeva a vita tra costolette d’agnello e bistecche. Il suo sogno era fare il calciatore. La sua classe evidente attirò l’interesse del Barcellona, che lo mise sotto contratto ancora prima di esordire con il Deportivo.
In blaugrana trova Helenio Herrera, l’uomo del destino di Suarez, che di lui ha detto: «Un grande, in anticipo sui tempi, ossessionato dalla velocità di gioco, di reazione, di pensiero. Anche i suoi allenamenti: duravano la metà degli altri, ma alla fine eri stanchissimo per l’intensità che richiedevano. Preparava le partite con il massimo d’informazione, per quei tempi. Aveva amici e informatori ovunque. E sapeva come caricare i giocatori. A Bicicli disse che era forte come Garrincha. Forse quella volta esagerò».
Al Barcellona ha militato per 8 anni, vincendo moltissimo e conquistando il Pallone d’oro nel 1960.
HH gli aveva consegnato le chiavi del centrocampo, in pratica è come se gli avesse detto: «ora guida tu». Aveva dei piedi eccezionali, ma, anziché fare l’attaccante, accettò di arretrare il suo raggio d’azione, diventando un faro, il sole attorno al quale ruotano tutti gli altri pianeti. Quando l’Inter, che aveva deciso di darsi una caratura mondiale per vincere quello che poi vinse, cioè tutto, si presentò con un assegno di 250 milioni, il Barcellona, che aveva bisogno di denaro fresco per completare il “Camp Nou”, non poté rinunciare e accettò l’offerta nerazzurra che si materializzò tramite Italo Allodi, volato in Spagna per chiudere l’affare.
Senza Herrera all’Inter non ci sarebbe stato un Suarez nerazzurro: “Io del Mago posso solo parlar bene, se non ci fosse stato lui non avrei mai accettato di spostarmi dalla Spagna. Sono stato il primo spagnolo a venire in Italia, l’anno dopo la Juve prese Del Sol. In quegli anni la Spagna era più povera dell’Italia, ma un calciatore stava bene, non si muoveva, come del resto nessun calciatore emigrava dall’Italia».
Il Mago, a distanza di tempo dall’epopea degli anni ‘60, non ha mai avuto dubbi su chi fosse il giocatore fondamentale per la Grande. Inter: «Tra tante pedine importanti, Suarez era quella importantissima». E ricordiamo che quella era un’Inter Mondiale, dominatrice in Europa e nel mondo. Una squadra che segnò un’epoca, nelle cui fila militavano, tra gli altri, campioni del calibro di Facchetti, Burgnich, Picchi, Corso e Mazzola.
Architetto Suarez, anni memorabili e qualche delusione all’Inter
Furono anni memorabili: l’Inter vinse due Coppe Campioni, due Coppe Intercontinentali, oltre agli scudetti. Suarez, quando gli dicono che il Mago non avrebbe mai rinunciato a lui in mezzo al campo, si schernisce, riconoscendo il valore intero di quella rosa: S’è detto che io ero l’anima di quell’Inter, ma non è vero. Quell’Inter aveva molte anime, da Facchetti a Corso, da Picchi a Mazzola. Io ero l’esperienza, questo penso. Esperienza internazionale, anche. Con l’eccezione di Herrera, nessuno all’Inter ne aveva come me».
All’Inter la più grossa delusione fu la finale di Coppa dei Campioni del 1967 giocata a Lisbona contro il Celtic. Luisito non scese in campo e fu sostituito dal modesto Bicicli. «A Lisbona io e Jair non avevamo giocato per degli acciacchi muscolari e questo ebbe un peso nella sconfitta, perché allora non c’erano le rose interminabili di adesso, un campionato lo giocavi con sedici o diciassette giocatori più qualche ragazzo della Primavera. Riuscimmo a recuperare per la trasferta di Mantova che sulla carta sembrava una formalità. Perdemmo uno a zero, e ci cascò il mondo addosso».
L’architetto quella sconfitta non l’ha mai digerita e qualche critica al Mago gliela muove anche oggi: «Non credo che il ciclo dell’Inter si sarebbe chiuso lì, se Herrera non avesse deciso di rivoluzionare la squadra. Insomma, eravamo arrivati in finale di coppa, avevamo fatto il campionato in testa, non è che fossimo divenuti dei brocchi. Invece Herrera decise di andare in cerca di novità a tutti i costi. L’anno dopo arrivammo quinti. La grande Inter finì così. Il calcio che giocavamo era sicuramente meno dinamico, ma dal punto di vista tecnico eravamo mille miglia avanti a quello di oggi».
Dopo aver rimpinguato la bacheca dell’Inter, l’addio alla squadra che gli consegnò per sempre un posto speciale nella storia, non fu dei più belli. l’addio non fu tra i più belli: «Mi chiama il presidente Fraizzoli, allenatore era Heriberto Herrera. “Il mister dice che tu e Corso non potete giocare insieme”. E io: meno male che questo è arrivato adesso, sennò non avremmo vinto niente. Poi gli ho detto: presidente, venda me. Ho 35 anni, Mariolino 29. Così mi sono ritrovato alla Samp col mio amico Lodetti».
Aveva tutti i numeri in repertorio per essere il funambolo della trequarti, il virtuoso delle aree di rigore, il Paganini della pelota: tocco vellutato, lancio millimetrico, dribbling secco e con due polmoni che – in un raro mix di qualità e quantità – lo facevano correre come Dorando Pietri. Invece, Luis Suarez Miramontes preferì mettere le sue qualità al servizio della squadra e fu un interprete magnifico del gioco votato al collettivo. Un grande direttore d’orchestra, brillante come Toscanini. Poteva fare il macellaio, ma avrebbe dilapidato una fortuna immensa. Finì per prevalere la sua classe cristallina: divenne, per tutti e per sempre, el arquitecto.